giovedì 4 luglio 2013
Italiani (di nuovo) popolo di emigranti: intervista ad un ‘cervello in fuga’ ostrense
Italiani popolo di emigranti. Corsi e ricorsi storici: se ad inizio 900′ erano i nostri avi a cercare fortuna oltre i confini nazionali, la generazione odierna sembra ripercorrere le orme dei propri nonni.
I dati dell’Aire (l’Anagrafe della popolazione Italiana Residente all’Estero) parlano chiaro e ci danno le dimensioni di un trend in crescita vertiginosa: se nel 2011 erano quasi 28mila i connazionali all’estero, nel 2012 sono arrivati a toccare quota 35mila. Naturalmente la crisi economica, con la conseguente disoccupazione, gioca un ruolo di primo piano in questa nuova ondata migratoria. L’identikit del nuovo emigrante è un giovane, di età compresa fra i 23 ai 35 anni, spesso con una laurea alle spalle che non è riuscito a trasformare, suo malgrado, in un’occupazione lavorativa stabile.
A questo nuovo esodo non fanno certo eccezione i senigalliesi: diversi sono i casi, più o meno recenti, di ragazzi che hanno o stanno tentando la fortuna all’estero, magari per un periodo limitato oppure con l’intenzione di mettere su le basi ‘definitive’ per il proprio futuro. Studenti Erasmus, ricercatori scientifici, lavoratori stagionali, volontari per agenzie internazionali o ragazze alla pari: il ventaglio è sicuramente molto ampio. SenigalliaNotizie.it cercherà di raccontare le storie dei senigalliesi che sono attualmente “abroad”, per cercare di capire meglio questo nuovo fenomeno sociale.
Una precisazione è doverosa: non sempre è la crisi a spingere giovani e meno giovani all’estero; a volte la mobilità è figlia della voglia di mettersi in gioco, di cercare di ampliare i propri orizzonti. E’ il caso di Lorenzo Ubaldi, classe 1981, nato a Senigallia ma (ex) residente a Casine di Ostra, laureato a pieni voti in Fisica. Dopo aver conseguito un dottorato in USA, è attualmente ricercatore presso l’Università di Bonn in Germania: si può definire sicuramente un cervello si in fuga, ma per ‘scelta’.
Vivi e lavori a Bonn oramai da quasi due anni: facciamo un passo indietro, come sei arrivato in Germania?La tua scelta di costruirti un futuro fuori dai confini nazionali è stata una scelta obbligata oppure no?
No, la mia scelta di lasciare l’Italia non e’ stata obbligata. Nel lontano 2003, quando ero immatricolato all’universita’ di Bologna, ho fatto un anno di studi a Santa Cruz, California, con il programma “overseas” (equivalente all’erasmus, ma con destinazioni oltre i confini europei). Mi sono trovato bene. Tornato a Bologna, nelle fasi conclusive della tesi di laurea, ho fatto domanda per tornare in California per il dottorato di ricerca. Sono stato fortunato, mi hanno accettato e non ci ho pensato su due volte: ho deciso di ripartire. Se quella domanda non fosse andata a buon fine avrei provato in altri posti in Europa. Se anche in quel caso non avessi avuto fortuna, avrei tentato il concorso di dottorato in Italia. Lasciare il mio paese in fondo alla lista, nel mio caso, e’ stata una scelta dettata semplicemente dal desiderio personale di fare un’esperienza all’estero, non dalla mancanza della possibilita’ di studiare in Italia. Il dottorato in California e’ durato cinque anni, poi ho mandato varie domande un po’ in tutto il mondo per una posizione da postdoc (prima fase da ricercatore dopo il dottorato). Ho ricevuto delle offerte ed ho giudicato quella tedesca la piu’ allettante, specialmente per il fatto che avevo gia’ conosciuto il professore ed il resto del gruppo con cui mi sarei trovato a lavorare ed avevo trovato l’atmosfera rilassata, amichevole e al tempo stesso stimolante. Ora sono a Bonn da due anni e sono soddisfatto.
Sei a pieno titolo un esempio di ‘Cervello in fuga’, anche se per scelta volontaria:qual è la situazione della ricerca all’estero rispetto a quella italiana?
Questa e’ una domanda difficile. La mia esperienza di ricerca all’estero e’ stata finora ottima, soprattutto perche’ ho avuto la fortuna di lavorare con professori e ricercatori molto in gamba. Posso giudicare la situazione della ricerca statunitense e quella tedesca, ma e’ quasi impossibile fare un paragone con quella italiana, perche’ non ho vissuto i suoi meccanismi. Posso basarmi su cio’ che i pochi ex-compagni universitari che sono rimasti anziche’ migrare, come la maggior parte, mi raccontano. Quasi sempre sono lamentele, piu’ che elogi al nostro sistema di ricerca. Negli Stati Uniti la ricerca e’ molto dinamica, c’e’ tanta interazione e discussione, favorita da un ambiente assolutamente informale con professori facilmente accessibili. C’e’ un’idea di mobilita’, nel senso che dopo il dottorato uno e’ costretto a spostarsi ogni due o tre anni per lavorare in universita’ diverse e farsi cosi’ un’ampia esperienza prima di trovare, si spera, un posto fisso. Questa idea contrasta molto con quella che e’ stata finora la tradizione in Italia, dove spesso, per far carriera, uno cerca di continuare a lavorare nello stesso posto dove ha fatto la tesi di laurea, con lo stesso gruppo.
La Germania, in questo senso, e’ piu’ simile agli Stati Uniti. Anche qui viene incoraggiata la mobilita’. Un punto di forza dei paesi che sono leader nel mio campo di ricerca, la fisica, e’ la diversita’. Il dipartimento e’ punto di incontro di ragazzi e ragazze da tutto il mondo. Dove sono adesso, a Bonn, la lingua che si sente parlare negli uffici e per i corridoi non e’ il tedesco, bensi’ l’inglese, visto che la maggior parte di studenti e ricercatori sono stranieri. In Italia, ahime’, siamo ancora ben lontani da questo obiettivo, che e’ fondamentale se si vuole essere competitivi, complice uno stipendio che di solito non e’ in linea con quello dei paesi stranieri e difficilmente attrae ricercatori oltre i nostri confini.
Se il tuo paese ti offrisse un’occasione per poter continuare il tuo operato in Italia lo accetteresti?
Dubito che accetterei al momento, preferisco continuare a formarmi le ossa all’estero dove sto bene. Per brevi esperienze personali, so che ci sono almeno un paio di universita’ in Italia dove mi troverei bene con i gruppi che fanno il mio tipo di ricerca. Ma ho anche amici in altre universita’ che mi raccontano di situazioni piuttosto deprimenti. Diciamo che per ora non ho proprio fretta di tornare.
Cos’è che spinge secondo te sempre più giovani a cercare fortuna fuori dai confini del ‘Belpaese’?
Forse il nostro paese non e’ piu’ cosi’ bello… Direi che e’ una combinazione di cose. Oggi e’ facile viaggiare e i programmi di scambio tra vari paesi, come l’erasmus, sono sempre piu’ numerosi. Dunque sempre piu’ giovani hanno la possibilita’ di andare all’estero per un po’ e questo apre la porta a nuove opportunita’. Visto che trovare lavoro in Italia sta diventando sempre piu’ difficile, i piu’ intraprendenti vanno a cercare fortuna altrove. Ho molti amici, non solo nel campo della ricerca, che sono migrati alla ricerca di un lavoro, lo hanno trovato e sono rimasti all’estero.
Credi che si possa sperare nei prossimi anni in un’inversione di tendenza, ovvero che i cervelli emigrati tornino alla base oppure è un’ipotesi fantascientifica?
Sono molto pessimista, per lo meno per il futuro immediato. Per invertire la tendenza bisognerebbe iniziare con un cambio di mentalita’ e ridare una certa priorita’ alla ricerca. Qualora questo avvenisse, e non mi pare proprio di vederlo dietro l’angolo, ci vorrebbero almeno altri dieci, venti anni, credo, per riportare il nostro sistema a livelli competitivi. Spero di sbagliarmi, ma non mi sembra che le nostre istituzioni siano cosi’ lungimiranti da poter pensare oggi a un piano per un futuro cosi’ lontano. Quindi ho l’impressione che i cervelli in fuga che hanno trovato terreno fertile altrove non abbiano un gran desiderio di tornare presto in Italia. Di sicuro ne conosco diversi che di tornare non ne hanno affatto intenzione.
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